Terremoto, 40 anni dopo. Ricciardi: non fu tutto sbagliato. Cosa manca? Una memoria condivisa – IL CIRIACO

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“Il Terremoto dell’Irpinia. Cronaca, storia e memoria dell’evento più catastrofico dell’Italia repubblicana”. Questo il titolo dell’ultima opera di Toni Ricciardi, edito da Donzelli, con la collaborazione del giornalista Generoso Picone e del giurista e presidente del Centro di ricerca «Guido Dorso» Luigi Fiorentino. Un’analisi che parte dal racconto dei 90 secondi di apocalisse del 23 novembre 1980 ma va oltre, contestualizzando l’evento drammatico nell’Italia del tempo e fotografando, dati alla mano, i fenomeni che, prima e dopo quel giorno, hanno interessato l’Irpinia. Già disponibile per la vendita on line, il testo arriverà nelle librerie il prossimo 5 novembre.

Da dove nasce l’esigenza di un libro sul terremoto a quarant’anni dalla tragedia?

«Dalla volontà di contestualizzare la più grande catastrofe della storia repubblicana, perché ogni qual volta si esprimono giudizi sul terremoto non si tiene mai conto in maniera adeguata di quello di cui stiamo parlando: 3mila morti, 9mila feriti, 300mila sfollati. Quello dell’Irpinia non è un terremoto, è il terremoto. Un evento spartiacque non solo della storia provinciale, ma di quella italiana. La grande catastrofe si innesta nell’Italia degli anni ’70 e ’80, quella del rampantismo, della Milano da bere, dell’ultimo decennio di grande spesa pubblica E’ lì che si inserisce la nostra storia, quella di comuni che, nonostante avessero contato le loro vittime dell’emigrazione a Marcinelle e Mattmark e nonostante da più di un decennio ci fosse una classe dirigente post Sullo che occupava spazi di potere di rilievo nazionale, divennero arcinoti solo grazie alla tragedia. E’ quell’Italia che scopre all’improvviso luoghi fermi all’immediato dopo guerra, paesi dove Cristo non era neanche arrivato. Poi l’analisi si concentra sulla rappresentazione e percezione del terremoto avuta da chi è nato dopo, dalla cosiddetta generazione dei prefabbricati di cui ha spesso e bene scritto Giulio D’Andrea sulle colonne di Irpiniapost».

Perché il terremoto dell’Irpinia ha disturbato la “grande storia”?

«Perché i terremoti in generale non si possono ascrivere solo come catastrofi naturali, o meglio lo diventano nella misura in cui entrano in contatto con il ruolo di fattori antropici. Quando toccano costruzioni e infrastrutture pensate male e realizzate peggio. La domanda di fondo che ci si pone da quarant’anni è le tremila vittime furono inevitabili conseguenze del 23 novembre o invece quel massacro si poteva scongiurare. Ed è una domanda a cui in parte, lo dicono i fatti, si può rispondere. Un esempio su tutti il crollo dell’ala dell’ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi inaugurato solo un anno prima, con tanto di richiesta di declassamento sismico da parte degli amministratori locali dell’epoca.  E fattori antropici sono anche i fenomeni di emigrazione che avevano interessato l’Irpinia nel decennio precedente portando larga parte dei paesi e delle costruzioni ad essere abbandonati.  Altro che i paesi presepe raccontati da Sciascia, la verità è che il fenomeno migratorio è già parte integrante della storia irpina che nel 1980 contava 400mila residenti».

Lei parla di ricostruzione compiuta ma tra virgolette. E’ il riferimento allo scandalo post sisma?

«Non mi ascrivo alla scuola di chi etichetta la ricostruzione solo come spreco e malaffare, magari rifacendosi al falso modello Friuli dove il sisma, avvenuto quattro anni prima, non è paragonabile né per vittime né per danni prodotti né per estensione a quello dell’Irpinia. Né la ricostruzione in Friuli fu tutta rosa e fiori, basti ricordare il grande scandalo sulla maxi tangente per i prefabbricati che portò alla condanna del braccio destro di Zamberletti, e poi se calcoliamo i fondi erogati pro capite per sfollato, quelli del Friuli furono di tre volte superiori a quelli del Belice e il doppio rispetto a quelli dell’Irpinia che, però,  con oltre 60 miliardi di stanziamento totale di risorse, resta l’intervento finanziario più grande di sempre. Altro esempio riguarda le aree industriali e gli insediamenti produttivi. Ci fu una grandissima polemica per lo sbancamento della montagna di Balvano dove oggi però la Ferrero produce il biscotto più venduto al mondo, e ancora l’insediamento di Morra De Sanctis che ancora adesso dà lavoro a duemila persone. Questo non vuol dire che non ci fu spreco, clientelismo o ingerenza della camorra, ma non si può dimenticare il contesto nazionale in cui questo accadde. Tutti i partiti, quindi la classe dirigente del Paese, dissero la loro in merito alla spesa pubblica. Fu, nel bene e nel male, un fatto nazionale».

 

C’è ancora memoria di quel che è stato?

«Ognuno ha una sua memoria individuale magari legata ad un lutto, alla perdita della casa, alla distruzione del proprio paese. Manca una memoria condivisa e riconoscibile da tutti. Il grande appuntamento con la memoria ci sarà tra dieci anni, quando si riuscirà ad entrare in profondità con il giusto distacco. Oggi il grosso dei protagonisti di quella stagione vivono ancora a pieno i momenti commemorativi del terremoto. Le catastrofi sono processi di accelerazione della storia, non di cambiamento. Ecco perché la ricostruzione della memoria collettiva va affidata alla generazione post sisma che deve in qualche modo liberarsi dei racconti tramandati da nonni e padri, la cui vita è stata divisa da un prima o un dopo, e raccontare la propria visione».

Si fa un gran parlare della necessità di ripopolare i piccoli borghi delle aree interne. A quarant’anni dal terremoto è possibile?

«Immaginare che improvvisamente con turismo ed enogastronomia richiamiamo i giovani nei comuni irpini, è idiozia pura. Per dare a questi luoghi una prospettiva di futuro bisogna puntare su servizi a terza e quarta età. Ovviamente questo non significa fare dell’Irpinia una grande rsa. Anche in questo caso i dati ci vengono in aiuto. Ogni anno vengono pagati 3 miliardi di pensioni dall’estero ad ex emigranti che spesso ritornano in Italia per vivere più che dignitosamente con quanto percepito da altri paesi. Ma negli ultimi accade che questi pensionati tornano sì in Italia, ma non nei loro paesi di origine perché preferiscono zone dove vengono garantiti i servizi minimi essenziali per avere una qualità della vita discreta. Ecco perché bisogna cambiare prospettiva, partire dalla coda non dalla testa. Attrezzare le aree interne con servizi agli anziani significa creare posti di lavoro per i giovani che dovranno erogarli. Per farlo bisogna investire in infrastrutture materiali ed immateriali e mettere quei luoghi in connessione con il resto del Paese».

*Toni Ricciardi è storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra, componente del Comitato scientifico del Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes, membro del Comitato editoriale di «Studi emigrazione» e «Altreitalie», consulente storico del docufilm dal titolo Il Terremoto, di Alessandra Rossi per la regia di Mario Maellaro, che Rai Tre manderà in onda il 23 novembre in seconda serata.



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