Società di specchi

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Di Benedetta Obbiettivo & Antonia Camerlengo 

(Studentesse del Liceo “V. De Caprariis” – Plesso di Altavilla Irpina)

 

Lo specchio inteso come metafora, come allusione a ciò che è possibile osservare e a ciò che resta recondito, lo specchio come riflesso di quello che siamo o pensiamo di essere, ma anche come riferimento all’inconscio e ai nostri desideri nascosti. Una prima concezione che inaugura questi argomenti la possiamo già scorgere nelle Metamorfosi di Ovidio, in particolare nella storia di Narciso. Questo mito parla di un giovane dotato di grande bellezza, che trovò la morte nel tentativo di arrivare a qualcosa di irraggiungibile: se stesso. Egli vedeva nel suo riflesso un’immagine perfetta che aspirava a conquistare ad ogni costo. Il desiderio era così forte che, la realizzazione dell’inafferrabilità dell’oggetto della sua passione, lo portò alla follia.

Lo specchio, di norma, riflette ciò che vede, il problema è come il cervello percepisca e distorca l’immagine riflessa. Per questo motivo, ci sono alcune persone che vedono il proprio riflesso come perfetto e impeccabile, ad esempio Narciso, mentre altre lo trovano noioso e non all’altezza.

Spesso oggi ci si trova a voler raggiungere la perfezione che, soprattutto i social, fanno credere essere quasi tangibile; una nuova religione del corpo, come afferma Massimo Recalcati, una religione senza Dio che eleva il corpo umano e la sua immagine a rango di un vero e proprio idolo. Bisogna fare attenzione però, a ricordare che le immagini che circolano non rappresentano la realtà, ma sono quasi sempre ritoccate per essere rese prive di imperfezioni e di conseguenza più apprezzate. Questo ci fa capire che i primi ad accettare l’imitazione della perfezione siamo proprio noi, che allo stesso tempo creiamo e imponiamo dei canoni estetici da rispettare. Per conformarci ad essi, quindi, tendiamo a nasconderci sotto una maschera che offusca la nostra vera essenza. Così, la paura del giudizio aumenta e l’approvazione altrui diventa fondamentale. La propria felicità è affidata esclusivamente all’opinione degli altri, che spesso non danno la giusta importanza al valore delle parole e alle conseguenze che esse possono provocare. In questo caso basta anche un solo commento inaspettato o un mancato like a far crollare l’autostima. Si è appesi a un sottile filo che oscilla tra il sentirsi soddisfatti per l’accettazione degli altri, fingendo di essere chi non si è e l’essere realmente felici, ma non apprezzati da tutti.

Sarebbe meglio rompere questi schemi per cercare di ritrovare la nostra personalità, che spesso è persa nella finzione. Di solito, l’utilizzo dei social porta all’unificazione dell’immagine corporea con quella digitale che deve essere continuamente sostenuta e aggiornata, legando così la persona al mondo della rete. Questi strumenti sembrano essere gli unici in grado di nutrire l’autostima personale, che purtroppo instaura una situazione di confronto che porta alla competizione. Chiunque nella rete può trovare consolazione e soddisfazione tramite apprezzamenti nei propri caricamenti multimediali.

Nonostante questa correlazione, si è constatato che è proprio negli ultimi anni che le persone si sentano sempre più sole. Da qui il paradosso che questi strumenti, nati per socializzare, invece generano solitudine. Gli schermi dei telefoni sono diventati anche barriere tra di noi. Se veramente vogliamo che essi siano strumenti per comunicare, dobbiamo imparare a usarli con moderazione e razionalità. Solo così avremmo la possibilità di conoscere l’altro nelle sue tante sfaccettature senza fermarci davanti al primo riflesso.



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