Lo sguardo di Picone sul “paesaggio con rovine” del terremoto infinito – IL CIRIACO

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“Paesaggio con rovine. Irpinia: un terremoto infinito”, edito da Mondadori e da oggi disponibile in libreria e sugli store on line, è l’ultimo libro di Generoso Picone, giornalista de Il Mattino.

Il libro incastra il terremoto dell’80 nel contesto storico pre e post sisma fino ai giorni del Covid. Che terra era l’Irpinia alle 19,35 del 23 novembre 1980?

«Ragionare del terremoto significa ragionare di Irpinia prima, durante e dopo, e cioè del teatro di un avvenimento assolutamente di carattere straordinario, il più importante disastro naturale che abbia subito l’Italia repubblicana.  In tempo di pace non c’è mai stato un avvenimento che abbia portato alla morte di 2900 persone che, spesso, vengono ricordate in maniera rituale come cifra. Probabilmente con la stessa dinamica esercitata dall’algoritmo che conta le vittime del Coronavirus. E’ evidente che abbia dovuto fare i conti con quel che stava succedendo attorno a me mentre scrivevo, quindi la pandemia, il lockdown, la crisi sanitaria. L’idea di algebrizzare la morte, senza capire cosa c’è dietro quei numeri, nomi e storie, mi sembra mostruosa. I morti del terremoto dell’Irpinia non sono mai stati ricordati come persone, ma come numeri della catastrofe e del conseguente scandalo. Invece dietro quelle vite spezzate c’è la storia del territorio che non è storia banale, ma fondamentale per capire cosa è accaduto da quel 23 novembre in poi. Al di là del percorso importante che ha avuto questa terra sul terreno del meridionalismo, l’Irpinia è sempre stata raccontata prima del terremoto come un luogo simbolo della geografia meridionalista italiana, una terra fatta di emigrazione, agricoltura povera, arretratezza dei servizi, di un’agonia di una civiltà rurale e contadina che viveva la sua fase più drammatica negli anni ’50 e ’60. E poi non si può parlare di Irpinia post sisma senza fare i conti che con le faccende che la cronaca dell’epoca ci restituisce, a partire dalle infiltrazioni della malavita organizzata che non nasce con il terremoto, ma da ben prima. Un esempio su tutti Quindici, dove la camorra era saldamente infiltrata in tutti i settori della pubblica amministrazione. Esisteva più generalmente in Irpinia, un sistema di potere complesso che non trova dimensione solo in un singolo partito, ma un giogo per cui la costrizione alla genuflessione diventava la prassi. Tutto questo esisteva prima del 23 novembre del 1980, il terremoto lo ha solo messo in movimento».

Si poteva prevedere, o meglio, intervenire prima per mitigare i danni del sisma?

«La catastrofe non è prevedibile, nella misura in cui non si può prevedere un terremoto, ma era abbastanza intuibile che l’Irpinia sarebbe stata colpita da un terremoto. Ugo Morelli, figlio della Grottaminarda distrutta dal sisma del ’62, sostiene la tesi per cui quel terremoto è stato il laboratorio di incubazione di alcune questioni che sarebbero poi esplose dopo quello dell’80. Una su tutte la sicurezza abitativa. Ricordo che il consiglio comunale di Sant’Angelo dei Lombardi votò nel ‘79 una delibera in cui chiedeva il declassamento del rischio sismico del paese, eppure la storia dei terremoti insegnava già allora che quella zona dell’Alta Irpinia ne aveva registrati almeno due ogni secolo dal 1600 in poi.  E proprio a Sant’Angelo crollò un’ala dell’ospedale nuovo, certamente per la violenza della scossa ma anche perché nei pilastri c’era la sabbia. In Irpinia il terremoto era stato sottovalutato come elemento che doveva invece portare a garantire la sicurezza anti sismica del territorio».

C’è un prima e un dopo. Cosa è accaduto realmente dal 23 novembre in poi?

«Quella immediatamente successiva fu una fase di grandissima solidarietà, in cui l’Irpinia divenne il luogo da aiutare con una tensione nazionale che in quegli anni fu per certi versi commovente, arrivarono donazioni finanche dall’Arabia e dall’Iraq. Sembrò che il mondo si fosse accorto non solo di una terra improvvisamente devastata, ma dell’Irpinia come pezzo del Sud su cui lavorare per farne il paradigma di un Mezzogiorno che cambiava, che poteva rinascere. Dalla qualità dell’architettura, a quella dello sviluppo industriale e dell’assetto del territorio, tutte questioni che sembravano decisive.  Quel momento poi subì una fase di strozzatura ad inizio anni ’90. Sono gli anni dell’Irpiniagate, ma va compreso ciò che c’era dietro quella inchiesta giornalistica e la strumentalizzazione che subì dalla politica che non ha tenuto conto  che erano già stati compiuti errori legati alla fase dello sviluppo, all’allargamento  dell’area terremotata a quasi tutto il Mezzogiorno, da Sapri a Lecce a Matera. Non ci si era accorti che si era perso di vista il luogo vero della tragedia, mettendo in moto un meccanismo di economia della catastrofe,  molto simile ai fondi a pioggia della Cassa del Mezzogiorno che, nella seconda fase della sua vita, è stata piegata ad interessi politici di basso conio.  Lo stesso meccanismo poi applicato alla 219 nella parte che riguardava lo sviluppo, cioè  la valutazione solo contabile delle richieste che pervenivano. Insomma bastava avere un commercialista un po’ più scaltro per  ottenere l’insediamento della propria azienda nell’area terremotata con il finanziamento del 105% di contributo da parte dello Stato. Portare le fabbriche in montagna chiaramente ha comportato un dispendio di fondi per le opere pubbliche, realizzate in maniera molto spesso faraonica, tutto ciò ha portato al concorso di quei 60.000 miliardi che rappresentano la cifra del costo del terremoto dell’80. E’ qui che probabilmente si è annientata ogni capacità critica rispetto alla distorsione del progetto di sviluppo delle aree terremotate: le cose successe sono ben peggiori di quelle ipotizzate in Terremotopoli. Oggi non conosciamo ancora la verità sostanziale della storia: emerge una classe politica che ha voluto rialimentare il suo sistema di consenso,  una classe imprenditoriale che ha visto nel terremoto la grande occasione per realizzare i propri progetti poi falliti, una classe imprenditoriale per molti versi settentrionale.  Il tutto mentre si consumava il danno vero della ricostruzione che non sarà mai cancellato: la qualità architettonica della ricostruzione privata e l’offesa al paesaggio con opere pubbliche che probabilmente sarebbe stato molto più logico e coerente costruire in maniera diversa e meno invasiva».

A quarant’anni di distanza, che Irpinia ritroviamo oggi?

«Una terra fragile e non solo sotto il profilo geologico ma come sistema complessivo che non ha consentito alle persone di nascere in un posto e continuare a viverci, a curarsi e a morire in casa propria. Questa è una terra che oggi ha gli stessi abitanti di cento anni fa, siamo sotto quota  420.000 e ogni anno perdiamo 2500 persone.  Abbiamo paesi che per la grande maggioranza non superano i 5000 abitanti, una provincia che non comprende ciò che vuole diventare, preferendo restare legata a un’immagine un po’ nostalgica del passato. Anche dopo il primo lockdown c’è stata ampia discussione sul ritorno ai borghi, ma in quei luoghi non c’è nulla, nessun servizio alla persona, uffici, negozi, manca la banda larga. Una retorica insopportabile che ha contribuito a costruire un’immagine falsa dell’Irpinia pre sisma, una sorta di paradiso perduto che non è mai esistito, e questo rischia di far immaginare un finto futuro senza visione. Invece ci vorrebbe un’Irpinia capace di riprogrammare il proprio domani guardando alla modernità, partendo  da quel livello avanzato che esiste grazie ad alcune aziende, ma che è frutto di operazioni sporadiche di cui l’Irpinia non ha la consapevolezza tale per farne sistema. Non serve quello che Fabrizio Barca definisce “l’architetto con la valigia”, quello che ha le soluzioni pronte e che risolve i problemi, come accadde appunto nella ricostruzione con i mega progetti. Il rischio è che oggi, si ripeta lo stesso scenario usufruendo di altri finanziamenti come  il recovery fund. A quarant’anni dal terremoto non è stato raggiunto un livello di sicurezza del territorio e non si pensa a come giocare la partita per il futuro. La risposta forse ce la dà Ugo Morelli che, da scienziato cognitivo, dice che purtroppo l’uomo dopo le catastrofi prima si mobilita, poi in quanto animale, ripercorre esattamente la strada pre catastrofe perché è quella che conosce. Questo è accaduto in Irpinia, dopo la grande solidarietà e tensione collettiva al cambiamento, tutto il sistema si è ritratto su se stesso ripercorrendo gli errori di prima. La mancata comprensione di quanto accaduto nell’80 suggerisce che non si era compreso nulla del terremoto del ’62. Ecco allora che, per citare sempre Morelli, servirebbe una mente nomade che si arricchisca attraverso la conoscenza senza legarsi agli schemi a cui siamo tutti purtroppo abituati. C’è bisogno di uno scatto in avanti, di un autentico interesse per questa terra. Questo libro voleva essere un’autobiografia del terremoto, poi mi è sembrato più opportuno raccontare questa storia in prima persona perché  arriva un momento della vita in cui ci si chiede se appartenere a un luogo abbia un senso. E la risposta è questo libro».

Può esistere, ancora oggi, una memoria di quel che è stato?

«I terremoti si dimenticano perché, come dice Nimis, non si può continuare a vivere con l’idea che la terra che si abita può implodere da un momento all’altro, si impazzirebbe. Ma questo appartiene alla sfera del dolore e delle paure dei singoli. Dovrebbe esistere invece una memoria istituzionale e politica capace di imporre il ricordo, e questo significa  predisporre il territorio in termini seri, con la presa in carico di una priorità che l’Italia non ha mai avuto pur essendo al 99% a rischio sismico. Non esiste una normativa sismica nazionale da applicare al di là degli interventi legati alle emergenze. Dopo la 219 non c’è stata nessuna legge sulla ricostruzione e lo sviluppo delle aree terremotate. Su come misurarsi con un terremoto e con il dopo terremoto c’è ancora molto da fare. E in Irpinia manca una consapevolezza diffusa di ciò che è avvenuto, non c’è contezza degli errori. Spererei tanto che qualcuno, prima o poi, in questa provincia faccia finalmente autocritica. Sarebbe un esercizio utile per trarre lezione da quegli errori senza più trincerarsi dietro l’alibi di un destino cinico e baro che ha voluto distruggere questa terra. Ma l’autocritica la fa chi ama veramente qualcosa. Io sospetto che, alla fine, l’Irpinia interessa solo nella misura in cui può essere utile al perseguimento di fini individuali. La memoria, sotto questo aspetto, è stata utilizzata in maniera molto strumentale».



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