L’intervista esclusiva del Corriere dell’Irpinia a Patrick Zaki

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Di Matteo Galasso

In questi ultimi tre anni ha fatto tanto parlare di sé l’attivista politico e per i diritti umani Patrick Zaki. Studente egiziano all’Università di Bologna, arrestato a Il Cairo dalle autorità egiziane il 7 febbraio 2020, detenuto per oltre ventidue mesi – fino alla sua liberazione provvisoria dell’8 dicembre 2021 –, Zaki nel luglio 2023 è stato condannato a tre anni di carcere, anche se subito dopo è stato graziato e liberato dal Presidente egiziano Al-Sisi, grazie anche alla pressione diplomatica dell’Italia. Il suo caso mediatico ha evidenziato nell’opinione pubblica italiana le endemiche problematiche della violazione e della tutela dei diritti umani sia in Egitto sia in generale nel Nord Africa, oltre a riportare al centro del dibattito il tema dei “prigionieri di coscienza”.

Abbiamo incontrato Zaki lo scorso 8 dicembre a Ginevra, appena prima dell’incontro organizzato al MIA (Maison Internationale des Associations) per la presentazione del suo libro “Sogni e illusioni di libertà. La mia storia” (Edizioni La nave di Teseo, 2023). Insieme abbiamo ripercorso le tappe della sua attività politica, della prigionia e della sua liberazione, del supporto mediatico e diplomatico italiano ed europeo che gli ha salvato la vita e con essa i suoi progetti futuri.

 

Dottor Zaki qual è stata la motivazione principale che l’ha spinta a diventare un attivista per i diritti umani?

Di particolare ispirazione per la mia carriera di attivismo per i diritti umani è stata la rivoluzione in Egitto del 2011, quando frequentavo il primo anno di università. Lo ricordo come un momento in cui per la prima volta si è manifestata la possibilità di un cambiamento democratico e liberale: quelle idee di uguaglianza formale e sostanziale mi motivano ancora oggi.

Prima di quel momento, avevo già svolto attività politica a scuola, leggendo e tenendomi sempre informato sull’attualità, ma non mi esponevo mai in prima persona. La rivoluzione ha poi messo in luce sia le evidenti violazioni dei diritti umani sia la violenza contro le donne e le minoranze perpetrate impunemente da decenni: non potevo più restare in silenzio.

 

Come descriverebbe la situazione attuale dei diritti umani in Nord Africa e in Medio Oriente?

Domanda difficile: le primavere arabe avevano acceso un barlume di speranza in chi credeva nel cambiamento, ma il fallimento dei moti rivoluzionari in tutta la regione, seguiti dall’ascesa al potere di personaggi autoritari e dispotici, ha messo chi cercava il cambiamento e l’evoluzione dei diritti in una scomoda posizione. Si sa: al fallimento di una rivoluzione e dopo la restaurazione, la repressione contro gli “insubordinati” può essere particolarmente violenta. In effetti, i governi autoritari di questi Paesi stanno raggiungendo pessimi record in termini di umiliazione dei diritti umani, con violazioni sistematiche della libertà di parola, otta alle minoranze e privazione dei diritti delle donne.

 

Secondo lei quali sono oggi le principali sfide politiche e sociali in tutta la regione?

In quanto human rights defender reputo principalmente imminente la denuncia dello stato in cui versa in questi Paesi la società civile indipendente, che viene ogni giorno più oppressa e meno accettata: molte istituzioni per i diritti umani e ONG negli ultimi cinque anni hanno già lasciato nazioni proprio come l’Egitto e la Libia, perché lavorando in queste realtà critiche non volevano mettere a rischio la vita dei proprio collaboratori. La società civile indipendente locale è poi ai minimi storici di attività, mentre quella di opposizione è stata completamente neutralizzata.

 

In che modo l’esperienza universitaria in Italia ha influenzato la sua prospettiva e il suo sguardo sulle questioni sociali e politiche?

Quella di Bologna è stata indubbiamente la migliore esperienza della mia carriera accademica. Nulla è cambiato per quanto riguarda i miei obiettivi, ma ho appreso un nuovo metodo di studiare e trattare la politica, specialmente attraverso lo studio della letteratura, sviluppando una maggiore coscienza su ciò per cui sto lottando.

Ricordo, al mio arrivo, di essere rimasto davvero sorpreso dall’approccio letterario universitario in questioni che avevo sempre considerato molto concrete. Prima di andare a Bologna avevo messo al primo posto letture di attualità, politica e diritto, ma la mia professoressa, Rita Monticelli, mi ha fatto notare come l’approccio letterario e letterale ai diritti umani potesse essere più efficace: non avevo fino ad allora una formazione letteraria e non leggevo romanzi, perché non pensavo fossero utili e formativi come invece poi si sono dimostrati. Monticelli mi spiegò anche del legame importante tra romanzi utopici e distopici e diritti umani, che ho poi effettivamente rilevato attraverso l’analisi e lo studio nel corso degli anni.

Aggiungo che l’Università di Bologna è davvero multietnica e multiculturale: questo è stato un aspetto che ha arricchito molto la mia vita da studente, perché mi ha permesso di entrare in contatto con usi e culture diverse grazie, ad esempio, al contatto con numerosi studenti del progetto Erasmus. Tutto ciò mi ha anche permesso di confrontarmi con colleghi che si occupano, nei propri Paesi di origine, delle stesse problematiche di cui sono portavoce.

 

Che ruolo ha avuto il sostegno internazionale e italiano nel suo caso? Ha percepito la solidarietà di organizzazioni e individui da tutto il Paese?

La società civile italiana e la popolazione italiana tutta ha svolto un ruolo centrale nel complesso processo che ha portato alla mia liberazione. La società civile ha lavorato in collaborazione con diplomatici, membri del governo e associazioni per documentarsi quotidianamente sulla mia situazione e cercare di arrivare al più presto ad una soluzione. Il sostegno alla mia causa non è certo arrivato solo dall’Italia, ma da molti paesi europei: gli italiani, però, hanno rappresentato la scintilla che ha ispirato e dato il via a questa grande campagna mediatica che mi ha letteralmente salvato la vita dopo due anni e di questo sarò grato per tutta la vita.

 

Ha notato qualche cambiamento nel panorama politico o sociale egiziano durante il suo periodo di detenzione?

Non è cambiato nulla, se non in negativo.

 

Quando ha appreso della sua scarcerazione e qual è stata la sua prima reazione?

Non mi aspettavo la scarcerazione, sono letteralmente rimasto sgomento, in quanto la notizia è sopraggiunta senza nessun preavviso: le guardie penitenziarie, proprio due anni fa, l’8 dicembre 2021, hanno aperto la porta della mia cella e mi hanno invitato ad uscire.

 

Che impatto ha avuto la notizia della “grazia” presidenziale dopo la sua condanna e quali sono state le sue emozioni? 

Dopo aver ricevuto la sentenza definitiva di tre anni, nel luglio 2023, sono stato assalito da un senso di profonda depressione: non c’è niente di peggio per un detenuto che il ritorno in carcere dopo essere stato scarcerato. Sarebbe stata indubbiamente una tragedia per me e per la mia famiglia.

Quando mi hanno comunicato, il giorno dopo la condanna, di essere stato graziato, mi sono sentito sollevato ma anche molto confuso: in quel momento volevo solo uscire e tornare dalla mia famiglia. Non mi aspettavo che la mia situazione potesse cambiare così rapidamente.

 

Si può quindi affermare definitivamente che è escluso il pericolo di una nuova detenzione? 

Non posso ancora affermarlo con certezza.

 

Cosa l’ha ispirata a scegliere per il suo libro il titolo: Sogni e illusioni di libertà. La mia storia.

Nella mia angusta cella, in prigione, due sentimenti contrastanti mi assalivano alternandosi: sogni e illusioni.

Sognavo la libertà, la attendevo: ma dopo aver realizzato che forse non sarebbe mai arrivata i sogni evaporavano, visto che non potevo realizzarli concretamente. In quel momento mi rendevo conto di essere solo un illuso e il mio umore peggiorava vertiginosamente giorno per giorno. Possiamo collegare questi due sentimenti opposti anche alla speranza di un cambiamento politico, che però non si realizzerà in questo momento storico.

 

Quale messaggio spera i lettori possano trarre dalla sua storia?

La storia che racconto nel mio libro vuole denunciare ciò che i miei occhi hanno visto accadere nelle carceri egiziane. Questo testo deve fare eco per gli altri che, numerosi, non hanno avuto la mia fortuna e oggi sono ancora detenuti. Li definisco colleghi, perché sono “prigionieri di coscienza”, come lo sono stato io.

 

Quali sono i suoi progetti futuri e i prossimi passi per la difesa dei diritti umani? Come pensa di continuare il suo impegno nella difesa dei più deboli?

Sinceramente non ho un piano preciso: da quando sono stato rilasciato ho ripreso lo stesso percorso che seguivo prima di essere arrestato. Continuerò a fare il ricercatore e difensore dei diritti umani e userò la visibilità che ho in questo momento per fare rumore il più possibile e sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione degli altri prigionieri di coscienza, della mancanza di libertà di parola, delle violenze perpetrate contro donne, minoranze e rifugiati. Prossimamente mi candiderò a un programma di dottorato e in qualche istituzione per i diritti umani, dove riprenderò le mie battaglie per l’uguaglianza di tutti i cittadini ed evitare che altri possano subire ciò che è toccato a me.

 


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