Il valore della conoscenza | Corriere dell’Irpinia

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Di Giovanni Coppola

“Ho cercato la pace ovunque, non l’ho trovata da nessuna parte se non in un angolo con un libro”. Tommaso da Kempis (1380 circa1471). Ogni volta che penso di essere andato avanti con gli anni, come per magia il mio pensiero salta una generazione e volge lo sguardo indietro, alle origini, ai nastri di partenza, dove sembra che la sinfonia del mondo debba aprirsi ai sogni e alle speranze, e, come su di una terrazza, vola seguendo i mille sentieri della vita. Il ricordo si poggia leggero su uno dei momenti più belli dell’adolescenza e fissa l’istante quando per caso scoprii la piccola biblioteca di mio padre. Essa consisteva in una cassa color verde bottiglia tempestata di borchie di ottone. Un vero Taj Mahal delle mie fantasie, dove si poteva trovare di tutto: chincaglierie e cianfrusaglie varie, veleno per topi, un obsoleto almanacco, un barometro, una pistola di partigiano avvolta in un telo di juta, una medaglia e la gloriosa tessera del CNL consumata dal tempo. Il baule si trovava in soffitta, in un angolo nascosto dietro alcune scatole di cartone che contenevano dei lampadari a gocce di cristallo tipici degli anni Sessanta. La scoperta mi calamitò in quel luogo il cui accesso non era per niente facile poiché era necessario tirare da una botola una ripida scaletta retrattile a pantografo. Nei mesi estivi mi recavo spesso in quell’angolo solitario per leggere qua e là, alla rinfusa, disteso per terra. La luce proveniva da un piccolo lucernario posto sul tetto, che permetteva di illuminare lo spazio centrale di quell’enorme ambiente. Ogni qualvolta ero lì venivo letteralmente colto da un’inspiegabile emozione, mista a smarrimento. Non solo leggevo, ma fantasticavo, immaginavo, sognavo a occhi aperti e costruivo mondi di vita lontani dal mio paese. Quel baule, inoltre, era pieno zeppo di libri: alcuni esemplari, molto economici, erano rilegati con una semplice copertina di carta beige, mentre altri, in vilpelle bordeaux, riportavano il titolo sul dorso con un elegante carattere tipografico in oro. Ciascun libro di quella collezione corrisponde a un momento particolare della mia vita di adolescente. Solo per citare qualche esempio: “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino mi catapulta negli afosi pomeriggi di luglio e agosto. Me lo sono gustato seduto su un plaid in una radura di un piccolo boschetto vicino casa, sotto l’ombra ventilata di un tiglio ramoso. Tra quelle pagine, ho scoperto l’esistenza del difficile rapporto tra il mondo degli adulti e quello dei bambini, spesso incapaci di comprendersi. E poi, “Paesi tuoi” di Cesare Pavese, uno dei miei preferiti, l’ho letto più volte nei freddi giorni invernali. La contrapposizione tra la città e la campagna, argomento a me molto caro, con la campagna che rappresenta il mondo dell’infanzia, dell’evasione, della fantasia, in antitesi alla città, il luogo degli adulti, del lavoro, della responsabilità, ma anche dell’infelicità e delle paure; e “La madre” di Maksim Gor’kij, madre di tutti quei ragazzi che lottano per qualcosa più grande di loro, madre di un ideale, per il quale si è disposti anche a dare la vita. La copia del libro ritrovata in soffitta, anche se molto malandata era glossata con la grafia di mio padre, che probabilmente l’aveva letto in Valsesia durante i duri giorni della guerra partigiana, per ricordare, forse, la madre persa nel terremoto del 1930, quando lui era solo un ragazzo di 12 anni. Infine, “Walden. Vita nei boschi” di Henry David Toureau, un brillante diario, pieno di considerazioni filosofiche e sociali, scritto in circa due anni in una semplice capanna di legno vicino al lago di Walden, a Concord, Massachusetts. Quest’ultimo libro l’ho consumato tutto d’un fiato nelle soleggiate giornate autunnali, in uno spiazzo recintato e ricoperto di ghiaia, fatto di sassolini angolati e appuntiti, situato proprio sotto casa. Mi faceva compagnia il dolce soffio del vento, che lentamente staccava le foglie una ad una dalla grande chioma di un castagno e mi accarezzava il viso, baciandomi le labbra. Era questa la mia divina giovinezza, un’ebrezza senza vino, un’orgia senza donne, ma con tanti, tanti libri da leggere. In quei libri, e non solo in quelli, ho trovato la mia prima ragion d’essere, ho imparato presto a scovare tra quelle righe il senso della vita. Credo che i libri siano stati i miei primi veri maestri. Ogni singolo libro è stato un incontro, un’emozione, una scoperta che ha contribuito a fare di me una persona diversa, tanto, poco o nulla non so, ma di certo hanno influito sulla mia formazione. A quel primo nucleo di libri si aggiunse quella dei classici della letteratura di mia madre. Anche se ero solo un ragazzo, mi buttai a capofitto, come un assetato che si avvicina a un pozzo nel deserto. Volevo sapere tutto e in fretta, ogni cosa mi interessava, sfarfallavo. Alle decine di libri si aggiungeva l’Enciclopedia Treccani di famiglia, che faceva bella mostra di sé con le sue classiche scritte in oro su fondo marrone scuro, dietro la poltroncina in pelle verde dello studio di mio padre. Leggere lì, in quella stanza, era l’apice della libidine. A ogni domanda, a ogni curiosità, l’Enciclopedia rispondeva senza sforzo. Compresi che la conoscenza, quella vera, era tutta lì, racchiusa in quei fogli, a portata di mano, bastava leggere. Rimanevo lì, a testa china su quei libri aperti, per ore, preferendoli volentieri a qualsiasi gioco, e nelle calde giornate estive, anche gli appuntamenti presi con i miei compagni del rione li dimenticavo per quel luogo nascosto, che mi faceva vibrare il cuore più di ogni altra cosa. Non avevo né piani né un’idea chiara di cosa ricavare da quel tempo dedicato alla lettura, a parte seguire alcuni autori come un segugio. La gran parte delle vacanze della mia giovinezza l’ho trascorsa così, leggendo libri, mentre l’altra metà del mio tempo l’ho consumata all’aria aperta nella campagna irpina, in pratica quella che si estende intorno al mio paese di origine. Quando non pedalavo con la mia bici da corsa “Bianchi” correvo per i viottoli in terra battuta che collegavano i piccoli paesi limitrofi. I saliscendi delle dolci colline pettinate dalle viti erano punteggiati da vecchie case coloniche che si affacciavano sulle distese di terra coltivate senza lussi, le sentivo vicine, familiari, molto adatte ai pensieri di cuori essenziali come il mio. Una campagna intima e sentimentale, fatta di muretti a secco e grovigli di rovi traboccanti di more, interrotta da qualche vecchio cancello di ferro dietro il quale si sentiva abbaiare, e poi castagni e noccioli, boschi di querce, radure verdi che si aprivano verso la valle dove il profumo degli orti saliva fino su in cima del paese. Ma cosa avrebbe potuto fare di me un uomo? Da quella gioventù isolata, lontana dai rumori delle città, ebbra di sogni e lacerata dai dubbi, cosa poteva nascere? Si fumavano le prime sigarette acquistate sfuse in tabaccheria, si ascoltavano le prime canzoni in inglese, si contestava la guerra in Vietnam, si discuteva di calcio e ci si infervorava per la politica. Non c’erano invidie né cattiverie tra noi, ma passioni. L’abitudine al confronto verbale, alla schermaglia dialettica, quella sana che ti aiuta a crescere, si consumava in una sorta di orgia cerebrale davanti al leggendario bar Scala. Il proprietario era un signore anglosassone di nome Pinuccio, ma conosciuto in paese con il soprannome di “Spitz”, attribuitogli in ricordo della prima grande leggenda del nuoto mondiale statunitense. È al bar Scala, in quel punto nevralgico del paese, “la punta della selce”, lì dove un tempo finiva la strada asfaltata e iniziava l’antico sentiero lastricato, che ci si ritrovava per confrontarsi e discutere di attualità, per condividere e commentare con gli altri un insieme di emozioni e di storie, per sviluppare nuove idee e accrescere nuove conoscenze e, nel tempo, maturare e diventare uomini in quel luogo senza tempo della “Terra di Mezzo”, dove i giovani dall’apparenza invecchiata andavano a braccetto con gli adulti. La lezione senza tempo delle mie letture mi è stata ancora una volta di grande aiuto, permettendomi di ritornare a far visita al porto di partenza, quell’altrove nostalgico dove tutto è cominciato.


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