Sanità, ordinanze e caos: cosi è fallita la Riforma del Titolo V – IL CIRIACO

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“Niente sarà più come prima”. E’ una frase, a metà tra la certezza e l’auspicio, diventata di uso frequente ai tempi della pandemia. Sicuramente quando avremo superato definitivamente la fase dell’emergenza qualcosa sarà certamente cambiato (magari anche noi stessi), altre cose, però, rimarranno uguali a come erano. Tra quelle, invece, che dovrebbero cambiare, perché il Covid-19 lo ha dimostrato il maniera evidente, è la riforma del Titolo V della Costituzione. La più grande riforma della Costituzione,  che l’anno prossimo compirà vent’anni, ha palesato in questi due mesi di emergenza tutti i suoi limiti perdendo chiaramente di vista quello che era lo spirito che ne aveva contrassegnato l’approvazione (con i voti del solo centrosinistra a due mesi dalle elezioni politiche poi vinte dal centrodestra). Il decentramento, la valorizzazione del ruolo delle autonomie locali e l’introduzione del federalismo fiscale si sono progressivamente trasformate in vere e proprie armi nelle mani del Presidente di turno (non a caso poi definito Governatore) che le ha utilizzate, spesso a prescindere dal colore politico del governo nazionale, per aumentare il livello di “autonomia” della propria regione fino a farla diventare quasi uno stato indipendente. Quello che è accaduto con la sanità (il settore più corposo che la Riforma aveva trasferito nella sfera di competenza delle Regioni) è sotto gli occhi di tutti. Certo, anche i governi hanno contributo a rendere meno solide le fondamenta del sistema attraverso una politica di tagli corposi (pagati sopratutto in termini di dotazioni di personale) e ripartizioni inique dei fondi alle Regioni. Ma è sui territori che si sono prodotti gli effetti più distruttivi. Venti modelli di sanità diversi l’uno dall’altro dal punto di vista dell’impostazione generale, ma con qualche preoccupante punto in comune: una sempre più evidente preponderanza di un modello di sanità con l’ospedale al centro e la medicina territoriale depauperata, un ventaglio di prestazioni che il pubblico ha garantito sempre meno a vantaggio del privato con costi ovviamente maggiorati scaricati sulle Regioni in un intreccio di convenzioni e accreditamenti finito col diventare un cane che si morde la coda, in un sistema che ha troppo spesso colpevolmente messo i numeri dei conti prima della salute dei pazienti.
La pandemia ha certamente numeri fuori da ogni immaginazione ma ha dimostrato che quel modello è fallito proprio laddove ha conosciuto il suo sviluppo maggiore (ovvero la Lombardia) anche se le scorie di questa sanità troppo sbilanciata sul privato (anche da noi l’accordo Regione-Aiop è un segno di questa stortura) ci sono ovunque e non sono certamente più sostenibili. La proposta, avanzata dal vicesegretario del Pd Orlando, di far tornare la sanità nelle competenze dello Stato sembra una strada vieppiù necessaria e ineludibile, almeno per quanto riguarda l’indirizzo normativo generale, lasciando poi al territorio le forme di organizzazione come pure ci hanno raccontato politici e tecnici che abbiamo ascoltato in questi giorni. Ma deve essere lo Stato a dettare le norme generali, su questo il Covid ha parlato molto chiaro. E lo ha fatto anche su altri settori toccati dalla Riforma di venti anni fa. Lo scontro tra il governo centrale e quelli delle singole regioni è diventato talvolta intollerabile e non degno di un paese civile: ad un Dpcm corrispondeva un’ordinanza uguale e contraria, tanto per scomodare la dinamica, e su qualunque argomento: le aperture, gli orari, le passeggiate, i tavolini dei ristoranti all’aperto e, per finire, anche gli allenamenti delle squadre di calcio. Una confusione normativa che ha un significato politico certo, ma che va anche oltre l’appartenenza e mostra una malcelata voglia di sfida al potere centrale con la scusa di conoscere meglio il territorio. Appare del tutto evidente che lo spirito di quella riforma sia stato tradito e non esista più e che occorra ripensare decisamente a quel modello prima che il regionalismo differenziato diventi una sorta di “liberi tutti” dal punto di vista politico ed economico. Sarà il tempo a dirci quante, e in che modo, cose saranno cambiate alla fine dell’emergenza Covid. Una cosa, però, è chiara: la Riforma del Titolo V deve essere cambiata perché quella originale non esiste più e quella attuale è molto pericolosa.



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