Presentazione in live streaming per “Paesaggio con rovine” di Generoso Picone – IL CIRIACO

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Si è svolta oggi, organizzata da Assunta D’Amore della Libreria Mondadori di Avellino, la presentazione in diretta streaming di “Paesaggio con rovine. Irpinia un terremoto infinito” scritto dal giornalista de Il Mattino Generoso Picone in occasione del 40° anniversario del Terremoto (Mondadori, pp. 228, 18 euro). 

Al tavolo virtuale dei relatori insieme con l’autore anche lo scrittore di noir Franco Festa,  il sociologo docente di Storia del Paesaggio Ugo Morelli, la libraia Assunta D’Amore e la giornalista de Ilciriaco.it Rossella Fierro in qualità di moderatrice. 

Ottimo il riscontro ricevuto dall’esperimento che ha visto numerosi partecipanti alla diretta intervenire con domande e sollecitazioni ai relatori a riprova dell’interesse scaturito da un volume che affronta la tragedia del Terremoto da una prospettiva che, come evidenziato dai relatori, si sofferma su quei tragici eventi trascendendo la dimensione prettamente localistica per abbracciare una visione di più ampio respiro. Di seguito una sintesi dei lunghi e articolati interventi che possono essere riascoltati integralmente sulla pagina Facebook Mondadori Bookstore Avellino.

 

https://fb.watch/2q9xfxWCGs/

 

“Picone non ha scritto un libro come tanti altri che sono usciti sul Terremoto – ha esordito Franco Festa – lui ha scritto un’autobiografia del Terremoto. Lui si mette in gioco, si fa attraversare dal dolore di ciò che è accaduto per trovare una risposta. Non ci sono dati, né solo giudizi di natura politica, lui parla di “grammatica del dolore”, di come trovare una risposta ad annose domande su “Chi siamo?”, “Chi siamo diventati?”, “E’ possibile un rapporto con questi luoghi pieni di dolore?”. Picone parte da uno sguardo, quello gettato dalla Sella di Conza da cui si scatenò la furia del Sisma, e sembra chiedersi se è possibile racchiudere il dolore nei numeri? Come quelli che vediamo ogni sera nelle tabelle mostrate dai TG con i morti per Covid?. Se tutto è ridotto a un dato, terremoto o pandemia che sia,  se la morte è ridotta ad un numero in un certo modo sparisce. Se dopo la tragedia si dimentica, ad esempio non facendo nulla per la prevenzione, si perpetua un crimine osceno, peggiore della dimenticanza. Dobbiamo capire il perché di tutto ciò che è accaduto, perché tutto si è ridotto a qualche scandalo e al fatto che il quadro complessivo non è stato più ricostruito. Picone fa questo, ricostruisce questo quadro, la città prima del Terremoto, cita il concerto di Lou Reed come “innesto della modernità” nella città, parla dei tanti intellettuali che l’Irpinia ha generato, ricostruisce le battaglie politiche degli anni ’70, fa l’analisi della “città dei piccoli imbrogli” che spiega come la città arrivò come arrivò al Terremoto. L’abbandono del centro storico, i morti del centro storico, hanno origine negli anni ’70; ci furono due città che ancora oggi non si incontrano. Tre mesi dopo il Terremoto, tutto il centro storico fu buttato giù e con esso la vita della città che per secoli si era sviluppata in quel luoghi. Questo libro ci fa capire come l’Irpinia e la città arrivarono al Terremoto. Dopo il Sisma, che Picone visse da protagonista in quanto giovane giornalista del Mattino, ricordiamo il ruolo del Mattino nel far comprendere la tragedia; per la prima volta Nord e Sud si saldarono nel nome della solidarietà. Furono periodi di grandissimo fervore intellettuale, dove i grandi nomi di allora diedero le loro indicazioni per non cadere nei vecchi schemi meridionali. Tutto questo però non si trasformò in fatti e fu una sconfitta per tutti: perché? Su questo terreno è andata avanti una semplificazione che non ha consentito una lettura corretta; tutto è stato ridotto all’Irpinia Gate, gli scandali che videro anche le imprese lucrare sulla tragedia. Perché tutto quello che è arrivato in questa terra non ha prodotto il miglioramento che poteva esserci? C’è una riflessione dolorosa da fare e Picone la fa, come si sia arrivati da quel momento alle attuali condizioni in cui viviamo; solo dalla verità può venir fuori la consapevolezza e, forse, il cambiamento”. 

Dal canto suo Ugo Morelli – professore di Scienze cognitive applicate alla vivibilità, al paesaggio e all’ambiente, di Psicologia del lavoro e dell’organizzazione e di Psicologia della creatività e dell’innovazione – inquadra la visione di Picone come un ologramma.

“Picone utilizza la vicenda del Terremoto per parlare di questo ma non solo – dice Morelli – grazie alla sua capacità di sguardo globale che osserva il locale, ci parla di come ciascuno di noi si confronta con gli accadimenti esterni. Il suo è un libro di portata universale, non solo locale, che affonda i piedi in un contesto specifico ma è un libro sulla vivibilità planetaria oggi, analizzata con grande sapienza. E’ perciò indispensabile anche per le generazioni più giovani per partire dal terremoto per poter parlare della nostra condizione attuale. La narrazione attraversa l’evento ma lo restituisce in una chiave universale, come occasione per riflettere sulla nostra condizione. Non si lascia ingabbiare in una dimensione localistica, come già fece con il precedente “I Napoletani” pubblicato per Laterza qualche anno fa. Il secondo punto della mia riflessione riguarda lo stile narrativo, la penna di Picone è lieve e tagliente, il suo stile combina la competenza letteraria con una capacità narrativa che arriva a vertici poetici. Quanto al trauma e alla sua elaborazione, Picone associa il trauma del terremoto ad altri traumi della contemporaneità. Il trauma infatti può avere o una dimensione generativa, imparando qualcosa da ciò che accade, nel libro vediamo che l’elaborazione del trauma, in Irpinia più che generativa è stata de-generativa, basta osservare il paesaggio.  L’esame di realtà è fondamentale, è qualcosa di cui questa terra non è stata veramente capace, per cercare di capire. Cosa è successo quindi? Una “dissolvenza dell’emozione”, il fenomeno Terremoto è diventato qualcosa da ricordare, da commemorare ma non davvero da capire, quasi da rimuovere, senza considerare ciò che parla da solo, come l’urbanistica. Basta guardare ciò che è stato fatto nei posti cruciali, nei centri storici, le costruzioni fatte distruggendo in un modo che, se fosse stato programmato, non sarebbe stato così efficace. Com’è che questo dolore, soprattutto estetico, che riguarda la possibilità di abitare un luogo bello, è stato sostituito dalla sua impossibilità. Il paesaggio non è qualcosa che sta intorno ma è qualcosa che si incorpora dentro di noi, un bimbo non può non imparare la lingua madre e allo stesso modo non può non interiorizzare il paesaggio, ciò produce una strutturazione della personalità in quella direzione. Il brutto diffuso è un’ipoteca sulle future generazione a produrre una rigenerazione in futuro, non ha futuro chi non è memoria. L’estetica ha a che fare con la struttura dil legame tra il nostro mondo intero e quello che c’è fuori. Tutto questo ha prodotto una resistenza al cambiamento. L’esame di realtà fatto da Picone è un profondo atto d’amore per l’Irpinia. Picone si sottrae alla tenaglia tra i contemplatori della decadenza e l’indifferenza. Cos’è l’indifferenza? E’ la sospensione tra noi stessi e la risonanza con il mondo, ciò è in parte salutare perché ci salva dal dolore, quando però diventa indifferenza essa si accompagna al conformismo”.

Generoso Picone definisce la genesi del libro com un “atto d’amore, un amore conflittuale, segnato dal risentimento verso questa terra” e chiarisce che tale sentimento è analogo a quello che si prova per qualcuno che non è diventato migliore.

“Questa terra non è riuscita ad evolversi in una direzione, ad esempio, capace di trattenere le persone che qui nascono. – spiega l’autore –  Il terremoto è stata l’occasione scatenante, come diceva Morelli, i traumi mettono in evidenza dei tratti di un corpo, questo è successo anche con il terremoto. Tanti dei miei coetanei sono andati via, anch’io ho lavorato a Napoli per 25 anni, restiamo però legati in qualche modo a questa terra, ecco il libro in un certo senso cerca il motivo di questo attaccamento. E’ un libro chiuso in una cornice,  quella dello sguardo, e ha molto a che fare con il paesaggio, che come non è la natura ma il risultato dell’intervento dell’uomo sulla natura. Il paesaggio è anche qualcosa che determina atteggiamenti interiori, sociali e collettivi.  Se è vero che le macerie sono le pietre, le rovine sono i segni del passato che ci obbligano ad un senso di responsabilità, che si manifesta attraverso l’esame di realtà che diventa esame di coscienza, che dovrebbe coinvolgere tutti per diventare verità. E’ possibile che in una tragedia simile esso venga dimenticato, rimosso, lasciando spazio a speculazioni, conflitti, senza dare giustizia a coloro che morirono sotto le pietre. Già prima del Terremoto, infatti, questa terra era molto vulnerabile, ci sono responsabilità politiche nel non rimediare al sottosviluppo. Il terremoto ha colpito duramente il nostro territorio, tutto il mondo tentò di aiutarlo, si mobilitarono gli intellettuali per fare di questo posto un laboratorio di un nuovo Mezzogiorno. Perché tutto ciò non è avvenuto? L’Irpinia oggi ha case più nuove, ma perché non è diventa ciò che aveva pensato, per esempio, Manlio Rossi Doria in un suo libro? Dove sono avvenuti i cortocircuiti? Ho voluto rispondere con una “inside story”, raccontando la mia tensione emotiva intorno a quei fatti, nelle pagine entro ed esco dalla storia, penso e tento di comprendere.  Questa è la terra del “Terremoto infinito”, di un rapporto con il potere che si delinea individuando alla base di questo paradigma la parola “gratitudine”. Chi viene da un’educazione di tipo religioso, sa che è un concetto importante, se poi diventa parte di un discorso amministrativo rivela una concezione distorta del rapporto tra cittadino e potere; costruire condizioni per cui si possa vivere ed essere curati ed essere assistiti a casa propria, questi dovrebbero essere diritti acquisiti, non qualcosa di cui dover essere grati. Il fatto che tanti irpini abbiano avuto successo fuori, vuol dire che qui si è creata una gabbia che non ha consentito loro di esprimersi qui. 

In tanti non hanno voluto il meglio per l’Irpinia e tanti si sono accontentati di quelli che non hanno voluto il meglio per l’Irpinia. In questa marginalità alcuni sono contenti, in fondo dove c’è precarietà c’è quasi sempre qualche aiuto, in questi casi è come se vincesse la mente animale, che ripercorre il sentiero che conosce. Manca la capacità della mente di essere nomade, di immaginare per questo luogo il meglio che si possa avere, almeno avere questa tensione, questa terra non deve essere un mezzo ma un fine. Alla fine è venuto fuori una sorta di esame di coscienza di chi scrive, in un posto dove questi si fanno raramente come le autocritiche, in un prima, che è Lou Reed, e un dopo che Andy Warhol”. 



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