Il ragazzo con la felpa nera

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Di Franco Festa

Il ragazzo è lì da ore, su una panchina nel verde condominiale, sotto la pioggia. Nessuno lo conosce. Ha una logora felpa nera con una scritta bianca, un paio di pantaloncini verdi, forse è un costume estivo, delle scarpe di gomma consumate. Il ragazzo non ha nulla con sé, accanto a lui soltanto un pacchetto avvolto nella carta stagnola e una bottiglietta d’acqua. E’ solo. Il suo sguardo è perso nel nulla. Ogni tanto stringe la testa tra le mani, abbassandola, e rimane fermo così. Richiama subito alla mente un quadro di Van Gogh, “Consumati”. Lì è un vecchio disperato, su una povera sedia, vicino a un fuoco spento, anche lui con la testa nascosta tra le mani, e quell’opera fa subito esplodere un conflitto tra il suo immenso dolore e la nostra infinita impotenza. Il ragazzo, dopo un tempo sconfinato in cui ha la faccia nascosta tra le mani, si lascia un poco scivolare sul sedile, le gambe allungate nell’erba, gli occhi verso il cielo. La sua tristezza, il suo sperdimento, la sua solitudine, fanno male. Eppure tutti passano, fingono di non vedere, vanno oltre. Per paura, perché non sanno trovare le parole giuste, per indifferenza. Lui non guarda nessuno, non partecipa a ciò che accade intorno, sta lottando con il suo dolore, con i suoi incubi, con tutto ciò che lo tormenta. D’un tratto arriva un’auto della polizia, forse qualcuno li ha chiamati. I poliziotti scendono, si avvicinano al ragazzo senza nessun’aria ostile, gli porgono delle domande con tono di voce normale. Si coglie subito come essi siano abituati a confrontarsi con queste situazioni difficili. Sono giovani, forse questo contribuisce a costruire tra di loro e quell’anima persa un sottile percorso di condivisione. E poi il ragazzo non ha fatto nulla, non ha minacciato nessuno. Sta solo lì, sulla panchina, sotto la pioggia che scende lieve. Mostra a fatica i documenti, i due agenti sussurrano per un poco di tempo qualcosa, forse un tentativo di capire, di aiutarlo, poi vanno via. Il ragazzo rimane ancora lì, fermo, smarrito. E’ un piccolo insignificante frammento di uno scompiglio più grande, che sembra travolgerci tutti in questi giorni. E come non sappiamo trovare le parole giuste per il ragazzo che è lì, parole che siano di aiuto a lui e ridiano a noi la capacità perduta di essere umani, così rimaniamo silenziosi e impotenti di fronte a tragedie più grandi, come la follia di Hamas come il vergognoso sterminio del popolo palestinese, come le tante guerre che devastano il mondo. D’un tratto il ragazzo non c’è più. Sulla panchina c’è però ancora quel pacchetto e quella bottiglia. Il cuore è attraversato da mille pensieri, da mille paure, da mille rimorsi. Ma nessuno continua a muoversi, a cercarlo, per capire cosa sia accaduto. Dopo un poco, la panchina è completamente vuota. Un senso di vile liberazione prende tutti. Ma il ragazzo ricompare nei giorni successivi in altri punti della città, fermo sui gradini di una chiesa, a passo svelto nei pressi della Dogana, mentre cammina lento lungo la strada che da San Tommaso porta a Bellizzi. Sempre la stessa felpa, lo stesso pantaloncino verde estivo, le stesse scarpe. Solo, sempre solo. Come tanti altri che ci passano accanto e fingiamo di non vedere, come tanti che vagano infelici per le strade della città o lottano contro i propri fantasmi nel chiuso delle proprie stanze. Quasi tutti giovani, i più esposti e indifesi di fronte agli anni bui che abbiamo attraversato e al flagello che incombe.


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