Il cigno dimenticato

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Di Mario Ciarimboli jr

Grande è stata l’esperienza della Scuola Musicale napoletana nel corso del Settecento, e grande è stato l’influsso della Stessa alla produzione operistica italiana e del Vecchio Continente per i Secoli venturi; sui grandi nomi come Giovanni Paisiello e Domenico Cimarosa tutti gli Stati d’Europa e del declinante Ancien Régime si battevano in vere e proprie contese, con annesse minacce di sanzioni o magagne diplomatiche, pur di chiamare gli stessi nei loro Teatri o alle loro Corti. Il lucente Settecento, tuttavia, non poteva di certo essere eterno, anche se i climi politici, napoleonici prima e viennesi poi, sostenevano sempre e soltanto il contrario; alla nobiltà del suono napoletano, a quel clima popolare vivo, congeniale così tanto al belcanto ed all’ottimo musicare, oramai nulla era rimasto se non un’eccessiva e talvolta morbosa e seccante contrapposizione di artisti con sguardo al futuro, al germogliante Romanticismo e alla serietà tipica delle più atroci opere dell’Alfieri o del Manzoni: la scuola napoletana era caduta in declino. In questo clima di innovazione e progresso, in cui Napoli resta sì palcoscenico primo e prisco per la lirica internazionale, ma scevro di compositori, per dirla come Stendhal, “suoi e basta”, un giovanissimo ventunenne tenterà di far fortuna. Il suo motto è chiaro, così come il suo metodo: “bisogna fare il nuovo con i mezzi del Passato”. Bisogna riprendere la più buffa delle opere del Pergolesi e riadattarla al canone moderno, che inizia già ad olezzare di Risorgimento e di Italia unificata, o quantomeno di ideali di Patria, guerra e Nazione. Quel “tenerello garzone, senza la barba”, come dirà di lui la regina Maria Carolina, si addossa questa responsabilità. Nicola Antonio Manfroce, originario di Palmi, in Calabria, si inserisce a forza nel dibattito musicale e tenta di dire la sua. Ad un mondo lirico oramai dominato totalmente dai marchigiani Rossini o Spontini o dalle lunghe ombre dei defunti Gretry e Mozart, il Nostro tenta di restaurare un nucleo di compositori partenopei proprio nella capitale del neonato regno delle Due Sicilie. Dirà poi il Mercadante: “Se fosse vissuto ancora, Napoli sarebbe tornata ai tempi del Paisiello”. L’Arte del Manfroce è sublime; i crescendo, che fanno chiara rivalità a quelli del più celebre pesarese, portano gli spettatori delle sue opere a emozionarsi fino alle lacrime; le arie, i duetti, le sinfonie: tutto è ruotante intorno al chiaro alone di novità ottocentesca, ma dal sapore della tradizione partenopea, cosa che rende il Manfroce famosissimo in tutto il Regno. Il Nostro riesce nell’ingegno, tuttavia, di musicare solo due Opere: l’Alzira e la famosissima Ecuba. Lavora in condizioni di fretta, di improvvisazione, di scomodità: sa bene che il mondo sta cambiando e non può permettersi di perdere il cambiamento stesso; vuole divenire l’unico e il solo anello di congiunzione tra Passato e Presente operistico, superare il Rossini e portare, ancora una volta, la musa della Lirica dai teatri di Pesaro a quelli di Napoli; scrive di notte, allontana gli amici, non cura il suo aspetto, e compone pagine e pagine di musica minandosi nel fisico e nello Spirito. Solo l’applauso del pubblico gli dona conforto e letizia, ma i suoi morbi sono altrettanto presenti nella sua parabola d’esistenza, e Manfroce inizia un lento declino. Dopo il debutto della sua cantata (La nascita di Alcide), il trionfo della sua Alzira (dove il popolo del Perù insorge contro i dominatori spagnoli) e la maestosità della sua Ecuba (che ottenne fior di applausi), ammalato gravemente per un’eccessiva produzione che ne ha minato il giovanissimo volto e l’addome, Manfroce rifiuta di concedersi una tregua e raddoppia i suoi sforzi per lavorare al Piramo e Tisbe, che tuttavia lascerà come un lavoro incompleto. La notizia della sua malattia giunge anche alla Regina, che invia i suoi medici personali per curarlo. Non ci sarà nulla da fare: il giovane musicista cessa di vivere tra atroci sofferenze il nove luglio 1813, ad appena ventidue anni. Il mondo lo dimenticò presto, e Napoli non fu più promotrice di innovazioni liriche congeniali all’Ottocento preunitario. Anche la sua tomba si perse. Pagò con la vita la troppa speranza, ma pagò con l’Arte il troppo sperare.



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