La proroga fino al 31 gennaio 2021 dello stato di emergenza sanitaria decisa dal Consiglio dei ministri e in attesa di conferma parlamentare, è certamente dettata dall’esigenza di far fronte al boom di contagi che si sta registrando in misura preoccupante da qualche settimana, ma corrisponde anche a convenienze, tutte politiche, dei partiti di maggioranza e non solo. Certamente i principali beneficiari del prolungamento dello stato di eccezione che ormai copre la durata di un anno e potrebbe ulteriormente dilatarsi, saranno il presidente Giuseppe Conte e il suo esecutivo, visto che nella situazione che si è creata il Governo vede confermato il proprio ruolo di cardine delle istituzioni non solo nel trattamento dell’epidemia ma anche nel rapporto col Parlamento, con le forze politiche, con le regioni e con la stessa opinione pubblica che segue un po’ frastornata gli sviluppi degli eventi. Nell’affollarsi di messaggi spesso contraddittori provenienti dal mondo della scienza e dell’accademia, e con le regioni che vorrebbero andare ognuna per conto proprio, palazzo Chigi concentra su di sé ogni potere decisionale, lasciando alle Camere un compito che è sempre più spesso di mera ratifica di provvedimenti già assunti in via d’urgenza. Ciò consente di ridurre al minimo gli incidenti di percorso, come per esempio la mancanza di numero legale che ha provocato il rinvio di 24 ore del voto sulla relazione del ministro Speranza, che ha offerto alle opposizioni il destro per denunciare un presunto scollamento della coalizione. Siccome qualche problema c’è fra gli alleati, è meglio evitare le occasioni nelle quali i dissensi o le rivalità possano emergere allo scoperto. C’è una mortificazione della rappresentanza, ma non importa.
Dunque, l’emergenza fa il gioco di Conte, che mira a rendersi sempre più indispensabile, svincolandosi dagli appetiti e dalle gelosie dei partiti che lo sostengono. Ma fa comodo anche a questi ultimi, dando loro il tempo e il respiro necessari per coltivare i rispettivi progetti o curare i loro malanni. Tonificato dalle vittorie nei ballottaggi alle amministrative, Nicola Zingaretti si sente già a capo del primo partito italiano, e come tale vorrebbe comportarsi, ottenendo un riconoscimento che però i Cinque Stelle e lo stesso Conte non sembrano disposti a concedere. Il disegno del segretario piddino appare chiaro, anche se l’orgoglio per l’esito elettorale contrasta con l’evidente (finora) difficoltà ad individuare un candidato a sindaco di Roma che possa convincere i grillini, liberarsi di Virginia Raggi e battere la destra, che a Roma è forte. Nella prossima primavera si vota nella capitale, a Milano, Torino, Bologna e Napoli, e sarà l’ultima occasione per mostrare agli elettori che l’abbinata Pd-Cinque Stelle non è più un compromesso di comodo per liberarsi di Salvini, ma si è trasformata in una vera e propria coalizione politica capace di affrontare con successo appuntamenti importanti come l’elezione del successore di Mattarella e le politiche del 2023. Alle recenti regionali l’esperimento è fallito, e dopo le prossime comunali non ci sarà una prova d’appello; quindi la partita è particolarmente importante.
Più dei piddini, i Cinque Stelle hanno bisogno di tempo per elaborare il lutto di un’avventura politica che sta miseramente fallendo. Esigenza primaria, per loro, è rinviare il più possibile lo showdown elettorale: sanno che nella XIX legislatura solo un terzo tornerà nel Palazzo, gli altri piangeranno amare lacrime sulla riduzione delle poltrone, che li punirà sanguinosamente. Attualmente vedono il prolungamento dell’emergenza come una bombola d’ossigeno, e dunque non contrasteranno il tentativo di Conte di restare in sella ad ogni costo.
Infine, anche le opposizioni hanno necessità di elaborare una strategia alternativa a quella della spallata salviniana che si è infranta finora più contro l’indifferenza degli elettori che contro le politiche del governo. Hanno capito che per approdare alla guida del Paese devono far pace con l’Europa. Ma non sanno quale strada prendere.
di Guido Bossa
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