Franco Festa torna in libreria con “La ferita del tempo” – IL CIRIACO

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Franco Festa

“La ferita del tempo” è il titolo del nuovo ed attesissimo romanzo noir di Franco Festa appena uscito per Robin Editore nella collana I Luoghi del Delitto.

Avellinese, classe 1946, insegnante, dirigente scolastico, collaboratore de Il Mattino, Franco Festa ha iniziato la sua carriera di scrittore noir creando il Commissario Mario Melillo. Sono sei i romanzi che lo vedono protagonista di appassionanti indagini, tutte ambientate ad Avellino, a partire dal dopoguerra fino agli anni ’80: Delitto al Corso (2004), vincitore del premio nazionale Delitto d’Autore; La quinta notte (2006); L’ultimo sguardo (2008); La verità dell’ombra (2010); Il respiro del

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male (2012) e Il confine dell’oblio (2015), tutti editi da Mephite. Nel 2013 crea un secondo protagonista, il Commissario Matarazzo, per la raccolta di storie noir “Nero urbano” (Mephite). Nel 2018 Melillo e Matarazzo sono insieme protagonisti de “La Scoperta del Doppio” che apre la collaborazione con la prestigiosa casa editrice torinese Robin. Festa è stato anche autore di teatro con due atti unici – Tunnel (2014) e Le Mani (2015) – entrambi messi in scena al Teatro 99Posti con la regia del compianto Federico Frasca.

Come per gli altri romanzi, anche questo prende le mosse da una vicenda delittuosa, stavolta collocata nel passato e apparentemente dimenticata, per cogliere spunti per raccontare, oltre alla storia di un crimine, anche il lato nascosto della vita di una cittadina di provincia.

Franco Festa, iniziamo dal titolo “La ferita del tempo”, si presta a tante letture. Innanzitutto è una sensazione che tutti provano con il passare del tempo, poi è ciò che rimane nei luoghi dopo talune operazioni dell’uomo, è anche il frutto dell’incuria e del menefreghismo, ma soprattutto è una ferita che non può guarire… 

“Sì, dici bene. E’ una doppia ferita, della mente e dei luoghi. Tutti, in modi diversi, abbiamo vissuto una sensazione del genere. Che è tanto più forte quanto più grande è stato il tentativo di dimenticare, di mettere tutto a tacere. D’altronde tutti i miei romanzi hanno questo come punto centrale: la lotta all’oblio. Per essere radicati nel presente è necessario fare i conti con il passato, altrimenti è il passato che fa i conti con te. Nel romanzo è proprio questo il leitmotiv, che qui assume i caratteri della tragedia, familiare e sociale”.

Sei romanzi con il Commissario Melillo, poi arriva il Commissario Matarazzo con “Nero Urbano”, possiamo delineare un filo rosso che lega un volume all’altro? O meglio l’intenzione che ti ha fatto scrivere il primo e poi continuare fino a “La ferita del tempo di prossima uscita”. C’è un intento letterario ma, in filigrana, anche uno civile.

“I romanzi di Melillo sono il tentativo di una storia sociale, civile, sentimentale della mia città dal dopoguerra al dopoterremoto, tramite questo personaggio mite, incorruttibile, gentile che è Mario Melillo. Ed è anche il racconto di una sconfitta, la sua e quella di una generazione. Nell’ultimo romanzo del primo ciclo, Il confine dell’oblio, Melillo si scontra direttamente con il potere, con la sua mano rapace del dopoterremoto, e deve prendere atto che nessuno vuole davvero la verità. Avrei potuto fermarmi lì, ma sarebbe stata una fuga rispetto al presente. Ed ecco che grazie al commissario Matarazzo, così diverso dal vecchio Melillo, e in fondo così uguale a lui, lo sguardo si sofferma sui nostri giorni. C’è dunque una tensione etica, prima che una necessità letteraria, a fare da collante tra i due cicli. E forse anche il desiderio di non lasciare andare Melillo, al quale mi lega un affetto smisurato e profondo”.

Quali sono le differenze e le analogie tra i tuoi Commissari? Rispecchiano forse due diverse parti di te o due fasi diverse della tua vita? Qual è il rapporto che hai con loro, come ti sono apparsi alla mente la prima volta?

“I due commissari sono diversissimi, nel carattere e nel rapporto con la vita, anche se li unisce il desiderio irrefrenabile di verità e di giustizia. E’ probabile che rispecchino due parti di me, quella ombrosa, diffidente, solitaria, e quella solare, tesa alla relazione con gli altri, all’impegno attivo. La verità è che dietro ci sono due reali riferimenti: mio padre, per Melillo, e il vero, indimenticabile Gabriele Matarazzo. E a loro che mi riferisco, quando li faccio muovere sulla scena”.

Avellino e l’Irpinia, lo sfondo dei tuoi romanzi, un protagonista muto e immobile così lontano e così vicino alla Vigata di Montalbano o alla Napoli di De Giovanni, con un suo specifico nelle atmosfere brumose e autunnali, un freddo perenne che è anche il freddo delle anime che la abitano… 

“Condivido le cose che dici, specie quella sul freddo dell’anima. E questo romanzo si svolge a dicembre, dunque ancora una volta il gelo esterno e quello interno si rispecchiano. Rispetto agli autori che citi, debbo sottolineare che sinceramente non ho riferimenti letterari, anche se li adoro entrambi. Ogni autore, in effetti,  parla di ciò che conosce, ed io conosco questa terra, questa città, diversa dalle altre. Piuttosto, se c’è un riferimento più forte, è alla scrittura secca, semplice, appassionata di Simenon, non tanto il giallista, quanto il grande narratore. Ma me ne sono accorto a posteriori, non quando scrivevo”.

Ira, avarizia, invidia, superbia, gola, accidia e lussuria, nei tuoi romanzi i Sette Peccati Capitali ricorrono tutti, ti va di provare per noi ad accostare ciascuno di loro ad un romanzo? 

“Mi chiedi l’impossibile, e poi le classificazioni non sono il mio forte. Né quando comincio a scrivere penso di puntare su questo o su quel sentimento. Certamente nell’ultimo romanzo sono l’ira, la superbia e la lussuria i peccati che è più facile ritrovare, come, nel precedente, La scoperta del doppio, sono l’accidia e l’ invidia il motore della storia. E poi, se me lo permetti, è il lettore il vero indagatore, lascio a lui questo compito per questo e per gli altri romanzi”.

Nelle trame dei tuoi romanzi ci sono probabilmente dei riferimenti alla storia e alla cronaca di questa città che, chi ne conosce le vicende, probabilmente coglie benissimo, specie chi ha memoria storica degli anni precedenti o immediatamente seguenti il Terremoto. Nelle tue pagine ci sono anche elementi autobiografici o personaggi o storie realmente accadute che tu celi nella materia romanzesca?

“La cosa che più mi diverte, quando ascolto i miei lettori, sono le “scoperte” che fanno, i riferimenti a questo o a quel personaggio reale, a questa o a quella storia veramente accaduta. Anzi, questa credo sia l’occupazione più diffusa. Ed è un approccio totalmente sbagliato, perché ogni personaggio, ogni situazione, è realmente inventata, anche se naturalmente l’invenzione si nutre del presente, ne può riflettere aspetti. Ma è un’altra storia. Già so ora, rispetto alle figure del potente consigliere comunale e dell’assessore presenti ne “La ferita del tempo” quanti saranno quelli pronti a scommettere che si tratti di Tizio o di Sempronio, mentre è facile capire che sono tutti e nessuno, e sono innanzitutto personaggi letterari, emblemi di una realtà politica assai squallida. L’unico vero riferimento al reale è in un breve passaggio sulla figura di Don Michele Grella, che ho voluto omaggiare per affetto e per riconoscenza. Il resto è fantasia”.

Dal primo romanzo di Melillo al romanzo in uscita, con Matarazzo e Melillo insieme, com’è cambiato il mondo? Nei primi si respira un’atmosfera ancora arcaica, in quelli più recenti quel mondo ancora contadino, cede il passo ad una realtà più asfittica in cui gli interessi sembrano avere la meglio su tutto… è questa anche la parabola della città, che ha perso il suo cuore popolare, il centro storico, e non riesce a proiettarsi davvero in una dimensione realmente metropolitana?

“E’ un’analisi corretta. D’altronde il primo romanzo “Delitto al Corso”- che sperò uscirà in ristampa l’anno prossimo- si svolgeva nell’Avellino del 1956, il secondo, “La quinta notte” addirittura 10 anni prima. L’ultimo invece è nell’inverno del 2019. Tanto tempo è passato, tanti cambiamenti hanno attraversato la città. Anche se io credo che alcune cose sono rimaste uguali. Non sono un teorico della nostalgia, non penso che la città di prima fosse migliore, e ho faticato molto a liberarmi da questa interpretazione dei miei romanzi. Il fine della mia scrittura, specie all’inizio, era anzi quello di scavare senza pietà nella nostra storia. Poi sono state le creature che creavo volta per volta a occupare la scena, le loro passioni, i loro sentimenti il vero centro della scrittura, e la città, sempre truce, sempre asfittica, sempre immemore, è scivolata sul fondo. Anche se non è mai scomparsa e, come in questo romanzo, ritorna ancora al centro della scena”.

Un delitto lo vediamo anche noi, ogni giorno, osservando la Dogana imprigionata nei tubi Innocenti, come risolverebbe questo caso il commissario Matarazzo? 

“Tu sai che questa è la mia ferita più grande. Siamo di fronte al fatto incredibile che dopo anni di lotta per l’esproprio, per ottenere i finanziamenti, ora tutto è di nuovo caduto nell’oblio, per colpa di un’Amministrazione inetta e, consentimelo di dirlo, del disinteresse e della strafottenza di tanti cittadini. Tra tutti i casi, questo potrebbe essere per Matarazzo il più difficile. Ma la resa non è un vocabolo che appartiene né a Matarazzo, né a Melillo, che vivono a un passo da lì, né tantomeno al loro autore, convinti come siamo che o si riparte dal cuore della città, dal suo Centro Storico, oppure dalla crisi che avvolge Avellino non se ne esce”.

Nel corso degli ultimi mesi sono scomparsi due uomini eccellenti e pilastri della cultura cittadina: Tonino Petrozziello e Federico Frasca. Entrambi hanno fatto parte della tua vita e del tuo lavoro, come ti piacerebbe ricordarli oggi? 

“Hai citato due delle persone che mi sono in assoluto più care, due autentici innovatori culturali, due instancabili suscitatori di bellezza, due infaticabili intellettuali non chiusi nel loro mondo, ma sempre attenti al nuovo, due persone miti e amorevoli. Sono perdite terribili per la città, e per me, che ero legati a entrambi da un legame profondo, e da cui ho imparato tanto. A Federico – e ad altre due persone a me care – è proprio dedicato quest’ultimo libro. Ma non credo possa bastare. E’ indispensabile non disperdere ciò che hanno fatto, tenere vivo il loro ricordo nel nostro agire quotidiano”.

Nel corso dei tuoi romanzi i personaggi femminili sono sempre stati importantissimi, in questo “La Ferita del Tempo” ci saranno evoluzioni in tal senso? 

“Ti ringrazio per l’osservazione, che è davvero centrale. Sì, sono i personaggi femminili quelli che sento più vicini a me. E in questo romanzo le donne sono le vere protagoniste, con le loro crisi, le loro passioni, le loro scelte. “La ferita del tempo”, più di molti altri romanzi, ha il fuoco dell’universo femminile, in tutte le sue sfaccettature, come chiave di lettura. E pensa che questa non è stata una scelta fatta all’inizio, ma è andata così, nel corso della scrittura quelle creature hanno preteso il centro della scena. Forse per capire ciò che è davvero cambiato in città è alle donne che dobbiamo fare riferimento, e alle loro lotte, alla loro capacità di resistere. In loro, e solo in loro, vi è la traccia di un possibile riscatto”.

Come si svolge il lavoro di scrittura di un noir? Qual è il tuo metodo di lavoro? 

“Sto mesi e mesi in uno stato di apparente letargo, senza far nulla, senza avvicinarmi alla tastiera. E’ la fase in cui le idee cercano strada nella mente, i ricordi riaffiorano, i pensieri si addensano, si avviano a diventare una possibile trama Poi, nel momento in cui comincio, non c’è tregua sino alla fine. Scrivere con metodo, ogni giorno, questa è la chiave. Ho solo un canovaccio, non so nulla di ciò che accadrà, ma mattino per mattino, al storia si sviluppa, lungo direzioni che non conosco, almeno a livello di coscienza. Sono i personaggi, sono loro, che pretendono di essere rappresentati. Non so davvero quali siano le regole per scrivere, mi divertono quelli che scrivono con la trama già pronta, e che fanno muovere i personaggi secondo i loro schemini. No, non è così. L’atto creativo è un’altra cosa. Ora non pretendo di essere un grande autore, non lo sono. Ma scrivere è una relazione con il mistero, con la parte scura di sé, o, come per quest’ultimo romanzo, un lavoro gomito a gomito con gli inferi. Però è solo il lettore che deciderà se ne è valsa la pena”.

 



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