Fibromi, le alternative all’intervento chirurgico: le tecniche mininvasive

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Pancia tesa, flusso mestruale abbondante e perdite tra un ciclo e l’altro, anemia, ansia e depressione per non riuscire a “rendere” al 100%. E poi, ecco farsi strada il dolore ai rapporti, i disturbi urinari, la stipsi e il senso di congestione alle pelvi. Bastano questi sintomi, che interessano il 65% delle donne, per descrivere i fibromi? Non basta. Possono minare anche la fertilità.

«Quelli sottomucosi crescono all’interno della cavità uterina, proprio dove si impianta l’ovulo fecondato», spiega il dottor Giorgio Gottardi, ginecologo responsabile dello Studio Medico Boscovich di Milano. «A differenza dei sottosierosi, che si sviluppano verso l’esterno, e di quelli intramurali che crescono nella parete muscolare, i sottomucosi aumentano rapidamente perché sono molto vascolarizzati e causa di emorragie. Occupando lo spazio in cui si annida l’embrione, provocano spesso un’interruzione spontanea».

Fortunatamente esistono delle alternative mininvasive sia alla classica isterectomia che, asportando l’utero in toto, è consigliata solo alle “over 40” già mamme, sia alla miomectomia (la sola asportazione del fibroma), che non sempre riesce a preservare la fertilità. Ecco allora affermarsi metodi che salvaguardano l’integrità dell’utero e la capacità riproduttiva. Vediamo i più efficaci.

L’embolizzazione delle arterie uterine

Togliere la linfa vitale al fibroma, farlo “morire” per denutrizione: è il fine dell’embolizzazione delle due arterie uterine (una a sinistra e una a destra), resa possibile dai progressi della radiologia interventistica. Niente sedazione profonda (solo una puntura anestetica alla radice della coscia) e una sola notte di degenza.

«In sala operatoria, nell’arteria femorale viene inserito un catetere e sospinto fino a incannulare le due arterie uterine», spiega il dottor Francesco Colucci, specialista in radiologia interventistica all’ospedale San Camillo-Forlanini di Roma. «Sotto guida radioscopica, si inietta quindi del liquido di contrasto per visualizzare bene forma e dimensioni del fibroma, insieme alle arterie che lo alimentano. A questo punto, la punta del catetere rilascia delle microparticelle di alcol polivinilico, simili a granelli di sabbia che, impilandosi, “tappano” le arterie. “Affamati”, i fibromi vanno incontro a naturale involuzione e, in caso di fibromi voluminosi, è facile assistere a una riduzione di oltre il 60%».

È importante sottolineare che la diminuzione del volume non è solo una questione di numeri, ma comporta una riduzione di tutta la sintomatologia associata come la metrorragia (flusso abbondante), i sanguinamenti intermestruali, la dispareunia (rapporti sessuali dolorosi) e i disturbi alla minzione e all’evacuazione. Di conseguenza, si torna ad avere una buona qualità di vita. «La procedura di embolizzazione, “fotografata” step by step dai raggi X (fluoroscopia), dà buoni risultati nel 95% dei casi, a prescindere dal numero dei fibromi, dalle dimensioni, dalla tipologia e della loro sede anatomica», precisa Colucci.

Ultrasuoni e radiofrequenza: le due supertecnologie

L’HIFU (High Intensity Focused Ultrasound) è una tecnica eseguita senza anestesia: “bombarda” il fibroma dall’esterno, per via transaddominale. Merito di un fascio di ultrasuoni ad alta energia che viene focalizzato in un punto, sotto guida ecografica o risonanza magnetica (RM).

«In genere si preferisce eseguire l’HIFU in una sala di radiologia, sotto controllo della RM perché, a differenza dell’ecografia, non è operatore-dipendente e fornisce immagini più precise», spiega il dottor Rodolfo Sirito, primario di ostetricia e ginecologia all’Ospedale Evangelico Internazionale di Genova. «Gli utrasuoni provocano un surriscaldamento del tessuto fibromatoso che può superare gli 80 °C e che induce una necrosi delle cellule miomatose, con una riduzione volumetrica del fibroma che va dal 30% al 40%»

I limiti dell’Hifu? Non è diffuso ed espone a un alto tasso di recidive: a 60 mesi dal trattamento un terzo delle donne si sottopone all’intervento tradizionale per la ricomparsa del fibroma. «Migliori risultati assicura la radiofrequenza: consiste nell’inserire un ago, guidato da una sonda-radio, all’interno del fibroma dopo aver fatto una leggera sedazione», prosegue il dottor Sirito. «La sottile sonda, inserita in vagina, emette radiazioni elettromagnetiche che determinano ipertemia tissutale (fino a 100°). Ciò comporta la necrosi delle cellule fibromatose, dei recettori degli estrogeni e del progesterone, nonché dei vasi sanguigni che vengono come “bruciati”».

Risultato? Come pubblicato nel 2020 sulla rivista “Medicina” dall’équipe di Sirito, a sei mesi dal trattamento si registra una riduzione dei fibromi del 73% e dei sintomi correlati dell’84%.

Il farmaco: solo in casi selezionati

Lanciato nel 2016, nel 2021 è stato fortemente limitato nell’utilizzo, per i casi di tossicità epatica e di crisi asmatiche. Parliamo dell’ulipristal acetato, che appartiene alla classe dei SPRM (modulatori selettivi dei recettori del progesterone).

Il suo meccanismo? «Si lega ai recettori del progesterone», spiega il dottor Giorgio Gottardi. «Ciò comporta la regolazione dei fattori di crescita del fibroma, come il fattore di crescita dell’epidermide (EGF). Gli studi dimostrano, infatti, un’azione pro-apoptotica (favorente cioè la “morte” delle cellule fibromatose), antiproliferativa e antiangiogenetica (ostacola la formazione di nuovi vasi). I fibromi si riducono già dopo il primo ciclo di trattamento, mentre il sanguinamento scompare dopo una settimana».

Per contro, il farmaco ha un rischio di tossicità epatica e di asma intorno al 5%. Per questa ragione, la nota informativa rilasciata dall’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) il 29 gennaio 2021 limita la sua prescrizione soltanto alle donne in età fertile, con sintomi severi e solo nel caso in cui l’embolizzazione o la chirurgia non risultino appropriati o non abbiano funzionato. Il trattamento farmacologico, inoltre, non deve superare cicli di tre mesi e deve essere prescritto da un medico ospedaliero, secondo un piano terapeutico.

Stop ai fibromi con la dieta

«Alcuni alimenti ne rallentano la crescita», esordisce la dottoressa Maria Laura Vinciguerra, medico estetico a Salerno, esperta in fitoterapia, omeopatia ed educazione alimentare. «Sono il tè verde, gli agrumi, i broccoli, i cavoli e i pomodori: grazie al loro potere antiossidante, tengono bassa l’infiammazione e la fibrosi tissutale, inducono apoptosi (la distruzione) nelle cellule anomale e presiedono al benessere ormonale. Per contro, vanno evitati tutti i cibi ricchi di fitoestrogeni, come la soia e il luppolo presente nella birra, che possono stimolare la crescita dei fibromi.

Un aiuto anche dagli integratori

Anche l’integrazione funzionale può essere di aiuto. «Numerosi studi associano la presenza di un utero fibromatoso a un deficit di vitamina D», precisa la dottoressa Maria Laura Vinciguerra. «Per questo consiglio una supplementazione mirata sia di vitamina D sia di D-chiroinositolo, una molecola naturale che svolge importanti azioni a livello neuroendocrino: inibisce, infatti, l’aromatosi abbassando la produzione in situ degli estrogeni. Presi in associazione, bloccano la crescita dei fibromi e possono ridurne le dimensioni, specie se assunti con la vitamina B6 (regola anch’essa l’attività ormonale)».

Esistono poi due integratori che rappresentano un’interessante prospettiva terapeutica, confermata da studi scientifici, e che possono essere prescritti da soli o in associazione: l’ontano e il ribes nero. «L’ontano riduce l’ipertrofia cellulare, bilancia il sistema endocrino e contrasta gli spasmi della muscolatura liscia dell’utero», prosegue la Vinciguerra. «Si assume come gemmoderivato, 50 gocce due volte al giorno. Il ribes nero ha proprietà antinfiammatorie e contrasta la congestione pelvica. Inoltre, è un riequilibra il sistema endocrino. Suggerisco l’estratto idroenzimatico, privo di alcol: 15 gocce tre volte al dì».

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