Dipendenza affettiva, perché i cuori in catene sono pericolosi

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L’infelicità, in amore, è un urlo potente a cui fa eco una risposta a senso unico: la colpa è sempre dell’altro. Nei racconti più ricorrenti prende la forma di quel lui/lei che non ci fa mai contenti, ma che alla sola idea che sparisca ci sentiamo male; quel lui/lei a cui addossiamo mille colpe ma che vogliamo a tutti i costi; quel lui/lei che forse ci demolisce ma che, prima o poi, si accorgerà di che tesoro di persone siamo.

Incontri-scontri marchiati dal perenne malessere, con qualsiasi partner, a cui la dottoressa Ameya Gabriella Canovi, psicologa e dottore di ricerca con un’esperienza ventennale nella dipendenza affettiva, rifiuta di dare la definizione di “amori tossici”. «Un termine frusto che non ha senso usare perché quando un rapporto non funziona c’è una corresponsabilità da entrambe le parti», dice. «Ma in tanti casi, le persone sono cieche riguardo a se stesse, imprigionate nel ruolo di vittime d’amore a oltranza. Il loro problema è che accusano il destino, la sfortuna di farle incappare nel partner sbagliato, e invece sono malate di dipendenza affettiva, un tarlo che si ripete di storia in storia, e le distrugge tutte».

Come spiega nel suo manuale Di troppo amore (Sperling & Kupfer) che, appena lanciato via social, è balzato al primo posto su Amazon nella classifica dei libri di psicologia più venduti.

Dottoressa Canovi, il tema ha un bel seguito…

Sì, perché la dipendenza affettiva è una disfunzione che affligge un’enorme quantità di uomini e donne, con una netta prevalenza femminile. Alla base, c’è un nodo emotivo irrisolto. Uno stile d’attaccamento affettivo, che anche da adulti rimane acerbo: si sente di non riuscire a funzionare senza l’altro, come succede nei primissimi anni di vita in cui dipendiamo in tutto e per tutto da chi ci accudisce. Nel testo mi sono focalizzata sulla dipendenza in amore, ma di fatto il bisogno “eccessivo” dell’esterno è trasversale. Ci può essere in qualsiasi rapporto, con i familiari, gli amici, i colleghi di lavoro.

È un bisogno imprescindibile?

Il leitmotiv di tante canzoni “Io non vivo senza di te” nella dipendenza affettiva non è più un simbolo romantico, è la verità. Senza quella persona, l’altro non si regge in piedi. Sono d’accordo con alcuni studiosi che suggeriscono di inserirla nel catalogo delle nuove dipendenze (gioco d’azzardo, tecnologia, sesso, shopping, chirurgia plastica), in quanto è la radice di ogni servitù psicologica. È sempre il buco emotivo che abbiamo dentro che ci spinge ad aggrapparci a qualcosa e/o qualcuno, nel tentativo di riempirlo. A seconda della propria visione del mondo, per qualcuno il credo sarà: «Compro, dunque esisto», per un altro: «Se sto con Andrea, sono». Cambia l’oggetto ma la dipendenza è sempre una compensazione reiterata all’infinito. Però, come la tossicomania, può compromettere la salute, fare perdere tempo e denaro, distruggere gli affetti.

Che radici ha questa distorsione?

È dentro di noi fin da piccoli, e non scompare neanche a 70 anni! Alcuni individui sentono per tutta la vita di aver ricevuto poco o troppo da genitori assenti o iperprotettivi. E agiscono sull’onda di quell’eterno bambino trascurato, poco rassicurato o, al contrario, soffocato da eccessive attenzioni per cui tutto è dovuto. Ma per effetto di quel nutrimento sperato o rivendicato, al posto dell’amore, si forma una voragine incolmabile.

Come vive la relazione il dipendente?

Per lui, il partner è un agente salvifico. Quello che deve provvedere a riempire quei vuoti originari, investito di aspettative di riparazione e risarcimento continui, determinando nella maggior parte dei casi una relazione disturbata. Dietro a un dipendente affettivo, è radicata una perdita di fiducia, una paura costante di sentire che le sue richieste d’amore cadano nel nulla, che non siano accolte da nessuno. Perciò, l’horror vacui diventa un nemico da combattere a tutti i costi, per fuggire da quell’insicurezza. E lo fa con un uso abnorme di appigli ai quali avvinghiarsi per poter stare al mondo. Questa falla emotiva, infatti, ha uno spettro di manifestazioni ampio: c’è chi mendica l’amore o chi alza continuamente la posta in palio, chi avrà un bisogno spasmodico di approvazione o è assuefatto al picco emotivo della continua conquista.

Quali sentimenti lo animano?

Il dipendente affettivo crede di dare molto, mentre in realtà prende e pretende, ma non lo sa. È convinto di amare, quando invece cerca solo una stampella. Anche se, per non essere lasciato, spesso compiace, si mostra docile, affettuoso e sensibile. In realtà, è dominato da tre imperativi: “dimmi, dammi, fammi”. Vuole che l’altro sia come dice lui, quando decide lui. Vuole che sia presente, comprensivo, amorevole, che lo ami al posto suo. E quando le cose non vanno, la responsabilità è sempre del partner. È lui che lo rende infelice.

Molti sono convinti del contrario…

Per ottenere lo sguardo dell’altro, il dipendente adotta comportamenti alternati: supplica, insegue, accusa, talvolta manipola, seduce, vomita sull’altro tutta la sua frustrazione. Però, non gli importa molto di ciò che prova il partner, e dei motivi che adduce per porre fine alla relazione o prendere le distanze. Lo vuole e basta. Gli serve, ne ha egoisticamente bisogno: come di una sostanza, come dell’aria per respirare. Dentro di lui, infatti, si agitano pensieri e stati emotivi negativi, senso di solitudine, di inadeguatezza, bassa autostima. E attaccarsi al partner lì per lì sembra una soluzione lenitiva a questo dolore. Solo che la sua fame d’amore è insaziabile. La dipendenza esiste a prescindere da chi si incontra. Il compagno può essere “perfetto”, ma ciò non è sufficiente a chi ha il circuito emotivo lacerato: non si sentirà mai abbastanza amato, apprezzato.

L’altro che ruolo ha?

Questa sindrome è un tarlo interiore quasi originario, non è un qualcosa che ti fa venire un altro perché cattivo, manipolatore, prevaricante. Il dipendente affettivo è portatore di un dubbio che percorre tutta la sua esistenza, quello di non valere abbastanza. Tutto quello che fa (o non fa) il partner viene vissuto come misura del proprio valore. Come un affronto verso se stesso. Come un segnale di rifiuto. Il tratto caratteristico di questi individui è che mettono continuamente alla prova l’esterno, e calcolano i ritorni. Ma non prendono mai in mano la propria vita, non dicono mai “Io posso” ma solo “Tu devi”.

Da chi sono attratti?

Dato che vagolano nel mondo alla ricerca di conferme, prima o poi i dipendenti affettivi incappano in una relazione con persone con le stesse ferite di autosvalutazione. La sfida peggiore riguarda la guerra che ingaggiano spesso e volentieri con il narcisista. Sia quello “brillante”, che lo ammalierà con la sua finta sicurezza; sia quello “opaco” che introverso, diffidente, talvolta livoroso, è accattivante per la sua inespugnabilità. Peccato che il dipendente chieda amore a chi non può darlo: il superuomo vuole solo un pubblico che applauda alla sua eccezionalità, e fugge da chi con continue richieste sentimentali, pretende di occupare il suo spazio vitale; l’evitante, con la sua paura di non essere accettato, è spaventato dall’affettività acuta del dipendente, e scivola via. È qui che salta fuori la deriva distruttiva della dipendenza, un duello all’ultimo sangue tra chi scappa e chi si accanisce fino allo sfinimento, anche sottomettendosi, umiliandosi, pur di tenere l’altro. La lotta diventa ragione di vita: il dipendente non vuole quella persona, vuole solo vincere.

Si può guarire?

Certo, e il punto di arrivo è quando riusciamo a tenere insieme le nostre esigenze affettive e quelle dell’altro. Vivere una relazione significa condividere una pienezza che abbiamo già dentro di noi. Significa vedere l’altro, e non l’intreccio di due corpi che, avvinghiati, non riescono a guardarsi.

I 3 passi verso la guarigione secondo la psicologa

1) Rileggiamo la nostra storia personale, e non passiamo tutta la vita a recriminare su genitori sbagliati. Quello che è stato è stato, i fatti non si cambiano. La libertà dal rancore ci fa guadagnare pragmatico orientamento: dal passato, possiamo recuperare ciò che di buono abbiamo vissuto e appreso.

2) Impariamo a conoscerci. Domande come: “Voglio che l’altro sia con me amorevole ma io sto bene con me stesso?”; “Voglio che mi trovi interessante ma io mi sento tale”? sono imprescindibili per essere consapevoli di chi siamo, e quindi assegnarci un certo valore o lavorare per migliorarci. Se il nostro giudizio è predominante, diventa più facile riuscire a darci da soli l’amore che pensiamo di meritare.

3) Trasformiamo il vuoto dentro di noi in spazi di creatività manuale e meditazione. Il fare o il pensare mitigano quel nulla assordante, il primo nemico del dipendente affettivo.

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